martedì 12 febbraio 2013

Come cambia il simbolismo delle immagini


Van Gogh è un’icona dei nostri giorni. È colui che attraversa la nostra sensibilità percettiva per arrivare diretto alla fonte di ogni nostra emozione. Van Gogh anima errante in un mondo impalpabile e vero,solo, dove il vento gli fa piegare ed incurvare spalle e ginocchia mentre per i giganti del vivere superficiale ed inconcludente non è che una lieve brezza che riesce a sollevare solo le foglie e relegarle negli angoli del quieto vivere, del prendi e non ti curare, del parla e non riflettere, dello sbircia e non guardare, del godi e non pensare. Quanta vita hanno trasportato quelle scarpe, quanta attesa hanno calpestato quelle suola, quante volte mani tremanti di stanchezza e ruvide di fatica hanno legato quei cordini che hanno tenuto unite quelle tomaie incartapecorite dall’acqua e dalla polvere, dal gelo e dal sole, arroventate nei campi di maggesi. E il fruitore vede e percepisce nella sua capacità immaginativa quella presenza così sublime e ieratica che nel suo rappresentarsi restituisce all’attenzione di chi riesce ad entrare nella dimensione dell’estetico della grazia un fluido, una compartecipazione che può dare la vertigine di entrare in una dimensione superiore, dovuta alla forza attraenteemanata da quell’immagine. E ci prefiguriamo quelle scarpe che hanno dovuto prendere tante volte la forma di piedi diversi,che sono passate dalla morte alla vita, che hanno sentito crescere dentro di loro le ossa e la pelle martoriata dalle sue rugosità, dalle sue troppe ricuciture, consolate e dissetate qualche volta dalla saliva acre e salata di una bocca riarsa dal sudore che sputa su quel povero oggetto l’ultimo rigurgito di una volontà di chi sa di dover rinunciare a restituire colore e lucentezza ad una materia che è morta ed è incapace di rinvigorire. Quelle scarpe allineate con attenzione al centro di una superficie,vivono la loro vita autonoma e libera, messa allo scoperto nella nudità di un atto che è solo un mostrare senza ammonire, che è solo un esserci senza voler ingombrare, che è solo presenza senza testimonianza. E l’uomo che soffre l’esistere,e per questo si prova arappresentarsi perimmagine, anche con la raffigurazione di quelle povere cose che un tempo mostravano la dignità di essere scarpe, ora povere e storpie, scolorite e consunte. Quell’uomo ha voluto ancora tentare di ridare loro l’orgoglio di essere nella completezza dalla loroidentità. Perché l’uomo che ha il potere di trasformare e rendere eterne le creature della sua mente immaginifica, l’uomo mago e prestigiatore e illusionista resta poi prigioniero delle sue immagini e nella loro malia si lascia attrarre. 
Gli attuali e accreditati nuovi ricercatori della sede delle emozioni potrebbero impunemente e con prove alla mano affermare che non c’è sortilegio, che non c’è fascino o seduzione, si tratta comunque solo ed unicamente di reazioni chimiche che il nostro cervello impegna quando c’è motivo di risposta ad un’azione: una sorta di secrezione delle mucose cerebrali conseguente ad uno stimolo. Come affermano i comportamentismi, gli psicologi, gli studiosi del comportamento. E le scarpe di Van Gogh, i suoi quadri, sortiscono in noi le stesse reazioni che suscita la presenza di una succolenta bistecca per un cane che, dopo diverse prove ed errori, tentativo dopo tentativo, soddisfa le attese dell’addestratore e assimila il suono del campanello all’approntarsi del cibo.
Tutto ciò può sembrare quanto meno irriverente e capace solo di gettare nello sconforto i poveri fruitori che si erano illusi di possedere la capacità percettivaed emotiva della meraviglia, di saper com-patire la sensazione inebriante del bello, del sublime. Ma le ricerche sul cervello ci vogliono convincere che tutto dipende dalle sue connessioni neurali e con questo tentano di gettare cenere sul fuoco della creazione artistica e della percezione estetica dense di atmosfere incontaminate e di esperienze esaltanti. Allora il grande artista è solo uno che sa far scattare il meccanismo che dà luogo alla reazione neurale dell’emozione. Van Gogh e le sue figure contorte, in completa balia degli elementi, dentro cieli plumbei sconvolti dal loro stesso esistere non sono altro che il risultato di stimolazioni chimiche, un abile espediente del cervello alla stregua di quelle situazioni per cui anche un cane riesce ad assimilare il suono del campanello alla bistecca. E l’arte? Il valore del bello? È solo un abile espediente che da un po’di tempo a questa parte introduce alla prelibata tavola imbandita dai mercanti d’arte, dai battitori d’aste, datutto un mondo di gente che si nutre delle illusioni, delle sofferte contorsioni mentali di un meccanismo freddo e perfetto quale è il cervello, anche delle persone che sembrano voler affermare la presenza di forze diverse ed estranee ai suoi meccanismi.
senso hanno i loro prodotti se tutto si riduce ad una lettura mediata dalla funzione cerebrale che si consuma e si risolve nella dimensione chimica e magnetica delle parti interessate a specifici e definiti stimoli che sono sensitivi e non percettivi, che dall’apparire, dal fenomeno ricevono spinta e necessità di soluzione che, come nev
Quale fine ingloriosa e priva di senso è riservata a quelle povere scarpe consunte e lacerate dalla lunga, oltre ogni possibile capacità di resistere, usura del tempo, alla fatica sopportata e sofferta di chi quelle scarpe usa e consuma insieme alla sua incapacità di opporsi ad un destino che lo vuole stremato dall’esistere e lacerato dalla sofferenza del faticare senza speranza, del deformarsi senza attesa. Quelle scarpe, ridotte a povere cose deformi, sono scarpe da buttare, quando hanno interpretato il loro ruolo e superato il momento che segue la reazione allo stimolo.
E l’arte, tutta la grande tradizione di pensiero che la fa ritenere atto sfuggente ad ogni possibile definizione, tanto da coinvolgere e avvolgere nel suo evento natura e pensiero, azione ed atto, anima e corpo, immaginazione ed emozione, percezione ed azione, altro non è che uno specchio incantatore dove le cose che vengono riflesse sono il risultato di abili espedienti tecnici che le danno aspetto diverso e distorto. Immagini restituite da una superficie fredda ed estranea, meccanica ed inconsapevole. Che senso e valore può avere un’immagine riflessa, filtrata e creata dalla funzioneconnettiva di un decodificatore che noi chiamiamo cervello e che l’attuale ricerca apre alle nuove frontiere telematiche. Ma cosa rappresentano le immagini dell’arte, che e al sole, tutto fa sparire nella dissolvenza sostitutiva di eventi che, volta a volta,vengono cancellati da altri eventi, che il cervello classifica e organizza secondo criteri che restano nella pura e semplice fenomenologia della materia cerebrale.

Ornella Bovi

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